Terzo appuntamento della nostra rubrica dedicata all’arte digitale. Stavolta parla Emilio Vavarella, il giovane artista italiano di casa negli USA che indaga il rapporto tra uomo e potere tecnologico.
Questo terzo approfondimento sull’arte digitale segna un cambiamento di prospettiva. Dopo aver ascoltato il punto di vista di due critici e curatori (Dominique Moulon e Pau Waelder), è ora la volta di un artista: Emilio Vavarella.
Italiano trapiantato negli Stati Uniti, giovane talento dell’arte digitale, il suo lavoro fonde la pratica artistica interdisciplinare con la ricerca teorica ed è incentrato sullo studio del rapporto tra l’uomo e il potere tecnologico.
Inizio mirando subito al centro della tua ricerca: Umani, Trans-umani e Meta-Umani, in che modo l’arte digitale si pone in relazione al rapporto tra uomo e tecnologia?
«In opere come MNEMODRONE (2014), THE CAPTCHA PROJECT (2014), o DREAMSCAPES® Analytica (2017) metto in campo strategie di mediazione del rapporto tra essere umano e potere tecnologico, affidandomi alla forza immaginativa delle memorie collettive, riflettendo sulla condizione sociale di esseri umani obbligati ad agire come fossero macchine, o quantificando il mio sonno per estrarne valore economico, riportando anche i miei momenti di riposo all’interno di una logica estrattiva di quantificazione capitalista. Allo stesso modo in Amazon’s Cabinet of Curiosities (2019), RE: Animation (2017) o TRANSICONMORPHOSIS (2014) – tutte opere fortemente legate al digitale – mi pongo il problema di mediare il nostro rapporto con la tecnologia, sia essa un’intelligenza artificiale o un sistema di comunicazione multimediale. Sebbene ogni mio progetto articoli un certo orizzonte di contropotere, o apra uno spazio di riflessione, non credo che il nostro rapporto con il potere tecnologico, nelle sue infinite problematicità, possa o debba essere necessariamente risolto tout court, come spesso sento auspicare. Parto dalla seguente riflessione: la ‘risoluzione materiale’ del conflitto tra essere umano e tecnologia potrebbe portare a due sole possibilità equamente pericolose. La prima risoluzione proverrebbe da una spinta neo-luddista che vede nella tecnologia il nemico da abbattere. In questa prospettiva il conflitto uomo-macchina potrebbe essere superato grazie a una ‘involuzione’ della tecnica: l’umano tornerebbe (ammettendo che lo sia mai stato) un semplice mammifero pre-tecnologico, simile a scimmie e lemuri. La seconda spinta risolutiva è di direzione opposta e proviene da ambienti transumanisti che vedono nella tecnologia un perfezionamento dell’essere umano. In questo caso la tensione si concluderebbe con una totale assimilazione: l’umano come cyborg o come flusso dati libero da ogni costrizione psico-fisica. In entrambi i casi, smetteremmo di essere quel che siamo stati per millenni per diventare, improvvisamente, qualcosa di radicalmente diverso. Preservare il nostro essere umani significa continuare a mediare il rapporto che abbiamo col potere tecnologico, non sfuggirgli o risolverlo. Umanità e tecnologia sono l’una il prodotto dell’altra, e l’arte digitale offre la possibilità di conciliare continuamente la loro relazione».
Quale pensi sia il rapporto tra Arte Digitale e Memoria?
«La pagina di Wikipedia dedicata al concetto di ‘memoria’ (faccio riferimento alla versione inglese, sorretta da un numero di fonti bibliografiche dieci volte più corposo di quella italiana) la definisce: “una facoltà del cervello attraverso cui dati e informazioni vengono codificati, conservati, e recuperati quando necessario.” Quindi, stando alla più popolare enciclopedia del mondo, dati e informazioni sono alla base tanto della memoria quanto dell’arte digitale, poiché entrambe si basano, apparentemente, sulla loro elaborazione. Il rapporto, in realtà, è fittizio, perché “dati e informazioni” significano qualcosa di totalmente diverso se riferiti al cervello umano o ad un hard-drive. Eppure la definizione proposta da Wikipedia è estremamente rivelatrice, perché illumina la relazione esistente tra lo sviluppo di quel complesso di tecniche culturali che fa capo all’arte digitale e quello di un’idea di memoria umana in termini computazionali. Il risultato pratico di questo rapporto è che le nostre memorie ci appaiono sempre più come il risultato di un’accumulazione di informazioni che vengono acquisite, immagazzinate, processate, e che vanno a costituire una sorta di banca dati. I nostri pensieri hanno cominciato a somigliare ad operazioni e a processi computazionali, a degli algoritmi biochimici gestiti da un apparato informatico, un computer biologico, una scatola nera, o un processore neuronale. Così si inizia anche a parlare di riprogrammazione delle memorie, o di glitch mnemonici, tanto nella cultura popolare quanto nella letteratura scientifica, in una continua naturalizzazione del rapporto tra vita interiore e tecnologia digitale. Le mie opere sulla memoria si collocano all’interno di questo spazio di riflessione».
In che modo?
«Il parallelismo che ho descritto tra la ricerca in ambito neurocognitivo o bioinformatico e la tecnologia computazionale – oltre a fare da corollario teorico ad un vasto corpus di opere d’arte incentrate proprio sul rapporto tra memoria e tecnologia – è un argomento su cui sto lavorando ad Harvard all’interno di un progetto di più ampio respiro. In THE SICILIAN FAMILY (2012-‘13) ho operato sulla distorsione tecnologica delle memorie di famiglia, scrivendole all’interno del codice ASCII di foto che mi erano state tramandate; in MNEMODRONE (2014) ho esplorato la possibilità di costituire un’intelligenza artificiale sulla base di memorie condivise con un drone; in MNEMOGRAFO (2016) ho lavorato sul riaffiorare di memorie in Rete e su alcune mie memorie d’infanzia; in MEMORYSCAPES (2013-‘16) mi sono concentrato sul potenziale cartografico di italiani emigrati a New York; ed in MNEMOSCOPIO (2020), l’opera con cui mi sono aggiudicato l’ultimo bando SIAE – Per Chi Crea, sono tornato sul tema sperimentando nuove soluzioni tecnologiche. Tutte queste opere, in qualche modo, complicano, contraddicono o rivelano l’artificioso conflato tra sistemi informatici e la dimensione psichica, soggettiva, ovvero ciò che ci rende non interamente assimilabili ad un sistema artificiale».
A proposito di glitch, invece, diverse tue opere sono incentrate sulla poetica e sulla ricerca dell’errore: quale aspetto delle distorsioni e delle anomalie ti affascina? Come hai sviluppato questo tema all’interno della tua arte?
«Ricordo che abbiamo toccato questo argomento nel 2018, durante la nostra chiacchierata al bar dell’Ex Forno MAMbo. Il motivo per cui spesso implemento errori tecnologici nel mio lavoro è che essi fungono da forza generatrice. Una forza che sfugge al mio controllo o alla mia capacità di previsione, e che introduce variabili tecniche, estetiche e concettuali. Allo stesso tempo, l’errore ha anche un forte potere rivelatore. Quando ci si trova di fronte ad un meccanismo estremamente complesso, uno dei modi per renderci conto del suo funzionamento è proprio quello di aspettare l’errore che rende visibile la dinamica tecnologica in esso nascosta. Queste due dimensioni, quella generativa e quella rivelatrice, sono presenti in tutti i miei progetti che sfruttano le caratteristiche del glitch».
Un’ultima considerazione: i tuoi lavori sono il risultato di una sorta di azione circolare che parte dal reale e a esso ritorna attraverso un viaggio nel virtuale. Sembra esserci l’esigenza di una materialità che concretizzi e renda visibile il processo digitale mediante i diversi linguaggi della scultura, del video, della fotografia e dell’installazione; virtuale e materiale risultano strettamente connessi. È così?
«Sì, ma innanzitutto vorrei precisare che considero la dimensione digitale e quella virtuale come essenzialmente fisiche e materiche, anche se ovviamente differenti dai medium più tradizionali. In alcuni miei progetti come THE CAPTCHA PROJECT, RE: Animation (2017), o The Driver and the Cameras (2012) evidenzio, infatti, anche le dimensioni materiale e infrastrutturale che sottostanno al digitale e, sempre per tale ragione, le mie opere più tecnologiche come MNEMOSCOPIO, TRANSICONMORPHOSIS o Do You Like Cyber? (2017) mantengono il loro apparato elettronico in bella vista. Non mi interessa dissimulare, ma rivelare. Più in generale, tutte le mie opere nascono da un percorso di ricerca concettuale e tecnologica su molteplici livelli, seguito da una formalizzazione in cui gli spunti e le riflessioni trovano una loro sintesi. Inizio sempre da un archivio di materiali in-progress – ad esempio collezioni di documenti, immagini, testi, appunti – su cui testo idee ancora ad uno stato embrionale o in lenta evoluzione. Con il progredire delle mie ricerche comincio a implementare ipotesi, tecniche, e a sperimentare diversi metodi di lavoro, alla ricerca di quelli più affini ai materiali raccolti e alle domande in questione. Spesso i medium che uso cambiano di progetto in progetto, proprio perché nuove idee e nuove domande richiedono materiali, forme e tecniche di tipo differente. Dopo aver individuato i materiali più affini all’idea, durante la fase di messa in opera, questi vengono stressati fino a raggiungere il loro limite interno. A volte, come nei tanti progetti in cui ho esplorato l’errore tecnologico, il limite viene superato di proposito, lasciando che dalla materia scelta emerga qualcos’altro. In ogni caso mi interessa spingere tecniche, media e concetti fino al loro punto di rottura, sfiorando quella soglia o punto di non ritorno che marca un limite fisico, tecnico, o epistemologico. A livello metodologico ogni mia opera segue un iter di questo tipo e si stabilizza solo quando raggiunge una perfetta omologia di forma e contenuto, techne e logos».